Politica

Pdl e Lega, oltre l’alleanza

Il risultato delle elezioni regionali ha dimostrato che il centrodestra, anche con una bassa partecipazione al voto, rappresenta la maggioranza degli elettori. E che non esiste competizione conflittuale tra Pdl e Lega Nord – come esisteva tra Dc e Psi nella cosiddetta prima Repubblica – tale da mettere in discussione la stabilità del governo e la sua leadership.
Si sfata così una illusione coltivata dal Pd – che rimpiange il 1996 quando vinse le elezioni solo grazie alla rottura nel centrodestra – e si smentisce la tesi della presunta egemonia di minoranza della Lega Nord nell’alleanza, che anche autorevoli esponenti del Pdl avevano prospettato come un rischio per la coalizione e la sua capacità di realizzare il programma elettorale.
I voti delle elezioni regionali, invece, mettono in luce una capacita cooperativa dei due partiti nel mantenere nell’ambito dell’alleanza politica fondata e guidata da Silvio Berlusconi il consenso degli elettori, e accentuano l’espansione nazionale della Lega Nord, che conquista consensi anche a molta distanza dal Po.
I numeri parlano chiaro. La tabella qui sotto mette a confronto – in termini percentuali – il consenso ottenuto da Pdl e Lega Nord nelle elezioni regionali del 2010 e nelle politiche del 2008 (voto per la Camera Deputati) nelle regioni in cui la Lega ha presentato le sue liste. La tendenza generale che si evidenzia è che i consensi persi dal Pdl sono totalmente recuperati dalla Lega, che in alcune regioni  sottrae consensi anche ad altri partiti, contribuendo alla crescita complessiva del centrodestra.
Le forze di governo accrescono il loro consenso del 4,5% in Umbria, del 3,8%  in Liguria, del 3% nelle Marche, del 2,4% in Lombardia, dell’1,7% in Emilia-Romagna, dello 0,2% in Veneto, e restano perfettamente stabili in Piemonte e in Toscana. Il dato più significativo è quello umbro, dove crescono Pdl e Lega, a dimostrazione che la crisi della sinistra si sta facendo strada anche in quei territori dove il suo dominio sembrava assoluto.
Si dice che la Lega Nord accresca i suoi consensi perché starebbe “tra la gente”, avrebbe una presenza costante sul territorio con i suoi militanti. È un’illusione ottica. I militanti del Partito Comunista erano mobilitati in permanenza e la domenica l’Unità veniva distribuito porta a porta, le piazze erano sempre piene, così come le feste di partito. Ma dalle urne il Pci è sempre uscito largamente minoritario, dal 1948 al 1992.
Sono, invece, tre i fattori che hanno contribuito al successo della Lega Nord in questo turno elettorale e che l’hanno premiata rispetto al Pdl. Vediamoli in ordine di importanza.
Innanzitutto la Lega appare più determinata nel perseguire gli obiettivi. Bossi e i suoi hanno indicato come obiettivi strategici della legislatura il federalismo fiscale e la sicurezza e hanno costantemente martellato sui due temi, portando all’approvazione le leggi e, con il ministro dell’Interno Maroni, la gestione della sicurezza. Oggi rivendicano il dossier riforme. Ed è proprio questa la concretezza che gli elettori percepiscono, non quella della mobilitazione propagandistica dei gazebo. Perché la propaganda amplifica l’azione, non la sostituisce. Il Popolo delle Libertà, da parte sua, ha indicato tra i suoi obiettivi riforme che il suo blocco sociale di riferimento considera essenziali, ma talvolta ha dato la sensazione di essere esitante o confuso sugli obiettivi. È stato lo stesso Silvio Berlusconi a metterlo in luce con una ironica e folgorante battuta in una conferenza stampa. “Noi – disse – siamo molto esperti di riforme della giustizia, visto che in sedici anni non ne abbiamo realizzata nemmeno una”.
In altri casi, invece, quando i ministri del Pdl hanno raggiunto indubbi successi – scuola, università, pubblica amministrazione, gestione del bilancio pubblico, politica internazionale, politica industriale – è mancata la capacità di propagandarli efficacemente. La comunicazione dei ministri non è stata coordinata, spesso ci sono state sovrapposizioni, in alcuni casi dissonanze. È mancata una regia complessiva che affiancasse ai successi personali del premier (Napoli e L’Aquila innanzitutto) la bontà del gioco di squadra.
Il secondo motivo di successo della Lega Nord è stato il suo posizionamento nella polemica politica. Tutta l’opposizione ha costantemente sparato ad alzo zero sul premier, ha giocato costantemente nella comunicazione la carta dell’antiberlusconismo, contando anche su qualche conflitto interno al Pdl. Solo l’Udc di Casini, da una certa fase in poi, ha messo nel mirino la Lega Nord, mentre Pd ed Idv hanno anche cercato di mostrare una differenza tra un Berlusconi “autoritario” e una Lega “dialogante”. Un gioco tanto facile quanto inutile, che però ha messo il Pdl nella condizione di dover spendere il suo tempo e le sue parole nel contrattacco e non nella proposta politica. Berlusconi e i suoi stanno in prima linea e, nella battaglia politica, pagano un prezzo maggiore di chi, come Bossi, sta nella retroguardia. Ora che Roberto Cota e Luca Zaia guidano Piemonte e Veneto le cose cambieranno anche per loro.
Terzo e più rilevante motivo del travaso dei voti da Pdl a Lega è stato il confronto interno al Pdl aperto da Fini su temi che toccano le corde dell’elettorato di destra. Fare proprie le posizioni della sinistra sul voto agli immigrati, sulla cittadinanza breve agli stranieri, sulla giustizia e sul ruolo della magistratura militante, e più in generale assumere un atteggiamento politico-istituzionale da “arco costituzionale” mostrando una subalternità culturale e ideologica nei confronti di chi chiamava e considerava semplicemente fascisti gli uomini della destra italiana, ha spostato il consenso di una parte degli elettori verso un partito che – al contrario – su alcuni capisaldi è intransigente. È un fenomeno analogo a quello delle elezioni europee del 1999, quando Fini con l’esperimento dell’elefantino e l’inserimento di Mario Segni nelle sue liste cercò di accreditare An come un partito liberal-democratico (e il Pci-Pds-Ds, di conseguenza, come un partito socialdemocratico), scavalcando a sinistra l’anticomunismo di Berlusconi e di Forza Italia. Allora An perse consenso a favore di Forza Italia. Oggi che Berlusconi e Fini stanno nello stesso partito, all’elettore di destra non è rimasto che spostare il suo voto su Bossi e la Lega Nord, come è accaduto in modo evidente in Lombardia dove i candidati del Pdl provenienti da Alleanza Nazionale hanno perso consensi.
Qual’è la lezione che va tratta, allora, da queste elezioni? Che il rapporto tra Pdl e Lega deve andare oltre l’alleanza elettorale e politica che da dieci anni tiene saldamente insieme i destini dei due partiti. Pdl e Lega devono cercare forme di collaborazione politica più stretta, che metta insieme non solo nelle istituzioni, quello che il popolo ormai ha unito stabilmente nel voto. È questa la prospettiva più produttiva per i due soggetti politici più innovativi e riformatori che possono oggi rendere effettiva la transizione dalla prima alla seconda Repubblica (il Predellino).

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