Politica

L’assassinio di monsignor Luigi Padovese

A poco più di quattro anni di distanza dall’uccisione di don Andrea Santoro per mano di un giovane musulmano, un’altra morte violenta sconvolge la piccola comunità cattolica presente in Turchia: questa volta la vittima è monsignor Luigi Padovese, dal 2004 vicario apostolico dell’Anatolia e attuale presidente della Conferenza Episcopale turca. L’assassino è il ventiseienne Murat Altun, da qualche anno autista e collaboratore di Padovese, che ha accoltellato il prelato nel giardino dell’abitazione di Iskenderun, nel sud del paese. Alla polizia, l’omicida avrebbe dichiarato di aver agito dopo aver avuto una «rivelazione divina». L’avvocato del giovane ha affermato che il suo assistito «soffre di turbe mentali» e per questo si trovava da un po’ di tempo sotto cura psicologica. Un dato, quest’ultimo, che porterebbe ad escludere il movente religioso o politico, anche se monsignor Ruggero Franceschini, arcivescovo di Smirne, ha dichiarato che la spiegazione dell’omicidio unicamente come il gesto di uno squilibrato non lo convince appieno: «E’ un luogo comune – ha detto Franceschini – che era già stato utilizzato per don Andrea Santoro». «Fra i fedeli e il mondo turco – scrive l’autorevole sito missionario Asianews.it  – si fa fatica ad accettare la sola tesi della malattia psichica del giovane, divenuta evidente solo qualche mese fa. Diversi attentati negli anni scorsi sono stati compiuti da giovani definiti instabili, rivelatisi poi in legame con gruppi ultranazionalisti e anti-cristiani». Per questo è necessario che le indagini siano approfondite e non liquidino comodamente e sbrigativamente quanto accaduto con il refrain  del «gesto isolato di un folle».
In attesa di sviluppi, una riflessione va fatta su un particolare aspetto richiamato da questa vicenda: si tratta del ruolo svolto dai cattolici in una terra difficile come quella turca, in una società che da qualche anno vive al suo interno una significativa tensione tra il tradizionale kemalismo laico inaugurato da Ataturk e i richiami delle sirene dell’islamismo radicale, le quali lanciano un messaggio che oggi sembra fare breccia tra fasce sempre più ampie della popolazione. Il fatto stesso che al governo del paese si trovi un partito di matrice islamica – ancorché «moderata» – come l’Akp di Erdogan e Gul, che in qualche modo ha segnato un punto di rottura con il passato della Repubblica, la dice lunga sulla forza dei venti che soffiano nella società turca in questo momento. Ebbene, in tale contesto la presenza della minoranza cattolica diviene sempre più un «segno di contraddizione», in quanto portatrice di una visione del mondo e della fede profondamente diversa da certe espressioni con cui oggi l’islam si presenta di fronte al mondo.
Una visione del mondo e della fede per comprendere la quale rimangono decisive le parole pronunciate da Benedetto XVI nella celebre lectio magistralis di Ratisbona del 12 settembre 2006. Il Papa, in quell’occasione, mostrò chiaramente che «la violenza è in contrasto con la natura di Dio e con la natura dell’anima» e, riprendendo le espressioni dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo durante un dialogo su cristianesimo e islam con un persiano colto, affermò che «chi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia». Parole che trovano conferma concreta nel modo in cui monsignor Padovese, e prima di lui don Santoro, hanno portato avanti la loro missione in Turchia: come profeti disarmati di una verità che non si impone agli uomini con la spada e la sopraffazione, ma si propone ad essi con la mitezza dell’annuncio, con la disponibilità all’accoglienza, con lo sguardo semplice di chi vuole portare nel mondo l’amore e la pace, non l’odio e la guerra.
Sia don Santoro che monsignor Padovese erano uomini cosiddetti «del dialogo», non nel senso di un irenismo ipocrita e un tanto al chilo, ma nella fedeltà alle parole del Vangelo: «Vi mando come pecore in mezzo ai lupi». Per questo la loro morte violenta in terra musulmana dovrebbe far riflettere ancora di più tutti coloro che immaginano un confronto con l’islam indolore e non problematico. Prendere atto della differenza, cioè della verità, è il primo modo per costruire la pace. Un gesto che a volte si può pagare anche col sangue e con la vita.

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