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Karol, il Beato voluto da Ratzinger

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Scritto da vocealta

papa_giovanni_paolo_IIÈ bene ricordare a quanti scelgono di criticare un giorno sì e l’altro pure Papa Benedetto, che la beatificazione del pontefice polacco va annoverata tra gli atti fondamentali voluti dal suo successore. E non si tratta di una scelta comoda, di una scelta facile.

L’opinione pubblica che ha nel mirino il Vaticano da sempre guarda con occhio per nulla benevolo Giovanni Paolo II, ma questo non è servito a cambiare le cose.

Esiste un filo rosso che lega i due pontificati ed è quello della ricerca e del ritrovamento dell’identità della Chiesa cattolica, assai spesso frastornata dall’incedere degli eventi di un mondo che ogni giorno che passa diventa più veloce, più frenetico e più disattento a Cristo.

È bene ricordare a quanti oggi si entusiasmano pensando alla beatificazione del Papa tanto amato in tutto il mondo, che Karol è stato figlio autentico della sua Chiesa e altrettanto autenticamente apostolo di Gesù. Non si può pensare di accogliere pienamente il suo messaggio, piegando alcune sue sollecitazioni ad una morale laica, neutra, che dimentica Dio e il significato della Passione, Crocifissione e Resurrezione di Cristo. «Non abbiate paura», che piace tanto ai benpensanti, ha un significato ben preciso e lo stesso vale per «Varcate la soglia della Speranza». Il resto sono chiacchiere, affascinazioni da personaggio televisivo. Il grande carisma di Giovanni Paolo II non è – come qualcuno tenta di far passare – frutto delle straordinarie capacità di un uomo eccezionale eletto Papa da un’assemblea di uomini vestiti di rosso ma semmai la fede contagiosa del successore dell’apostolo Pietro, indicato dal Conclave su ispirazione dello Spirito Santo. Molto ci sarebbe da aggiungere, ma meglio di altri su Wojtyla ha scritto Marco Invernizzi sulla Bussola quotidiana. Ne riportiamo integralmente l’articolo

È bene ricordare ai milioni di giovani sotto i 30 anni che andranno a Roma, o che comunque assisteranno alla beatificazione del primo maggio di Giovanni Paolo II, che quando il Papa polacco si affacciò sulla piazza San Pietro, in quella serata ancora tiepida dell’autunno romano, il mondo era molto diverso da quello nel quale sono vissuti. Come si studierà sui libri di storia, era il mondo prima del 1989, cioè della caduta del Muro di Berlino, del venir meno della minaccia comunista di conquistare il mondo attraverso la forza dell’Unione sovietica, che cesserà di esistere nel 1991. Un mondo diverso, che Papa Wojtyla contribuì a cambiare in modo significativo.

Nel 1978 erano trascorsi soltanto dieci anni e il mondo occidentale cominciava a sentire le conseguenze della rivoluzione culturale che prende il nome da quell’anno-evento, il Sessantotto. Molti di coloro che hanno vissuto da protagonisti quella stagione oggi occupano “posti chiave” della vita pubblica nelle nazioni europee e ostentano più o meno apertamente una distanza, a volte polemica in altri casi semplicemente de facto, dalla fede e soprattutto dalla Chiesa cattolica.

Quest’ultima, come istituzione più ancora che come comunità dei fedeli del Signore Gesù Cristo, viene rifiutata perché rappresenta qualcosa di stabile, di immutabile, come la famiglia e in generale i principi del senso comune, contro cui la rivolta antiautoritaria e antimetafisica del Sessantotto si era scagliata. Così ancora oggi, nonostante alcune conversioni importanti, significative ma episodiche, questa generazione è visibilmente assente nelle celebrazioni religiose pubbliche di un paese come l’Italia dove, a differenza di molti altri paesi europei, la pratica della fede cattolica non è in declino, anzi è cresciuta negli ultimi dieci anni del XX secolo.

Si tratta di una crescita che riguarda i giovani e gli anziani, che per esempio costituivano la grande maggioranza dei milioni di fedeli pazientemente in fila per venerare la salma di Papa Giovanni Paolo II nelle giornate indimenticabili successive alla sua morte, nell’aprile del 2005. Giovani e anziani che per ragioni anagrafiche non hanno conosciuto direttamente quella “sbornia” culturale che ha staccato una generazione – quella nata nei due decenni successivi alla seconda guerra mondiale – dall’educazione cristiana ricevuta.

Quando il cardinale arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla diventa Papa Giovanni Paolo II, nel tardo pomeriggio del 16 ottobre 1978, il mondo occidentale viveva immerso nelle conseguenze più drammatiche di quella stagione, il terrorismo o la fuga dalla realtà attraverso la droga e la trasgressione sessuale. Oggi, trascorso il tempo di una generazione, mentre il terrorismo di matrice comunista è stato sostanzialmente debellato (nonostante alcuni “colpi di coda”) e invece la trasgressione sessuale è divenuta costume, quella generazione “sessantottina” rimane in preda a una sorta di nichilismo che ha sostituito i fasti dell’ideologia con la ricerca del potere fine a se stesso, o del successo a tutti i costi, che è poi un aspetto del potere nell’epoca della comunicazione e del trionfo mediatico.

La sorpresa è grande. Pochi lo conoscono, anche se ha insegnato nelle università polacche, ha predicato gli esercizi spirituali al suo predecessore Paolo VI (1963-1978), ha partecipato attivamente al Concilio ecumenico Vaticano II. È soprattutto un uomo di una Chiesa che non sta soffrendo la crisi drammatica del post-Concilio che invece attraversano le diocesi occidentali. Nella sua di Cracovia, dal 1972 è in corso un Sinodo convocato proprio per capire come meglio applicare le indicazioni del Vaticano II, affinché quest’ultimo costituisca la spinta per una nuova fase di espansione missionaria del cristianesimo, pure in una situazione così particolare come quella polacca, dove una Chiesa di popolo sfida un regime comunista, ostile ma costretto a tener conto della popolarità della presenza cristiana.

Questo Sinodo, convocato per ricordare il nono centenario del ministero episcopale di san Stanislao di Szczepanòw (1030-1079), che appunto era stato vescovo a Cracovia per sette anni, verrà concluso dal primo pontefice polacco, l’8 giugno 1979, con una omelia nella cattedrale di Wavel, a Cracovia, nel corso del primo pellegrinaggio da Pontefice nella sua terra e nella sua diocesi in particolare. Un viaggio importantissimo perché contribuirà a dar vita al sindacato Solidarnosc, una delle componenti più importanti fra quelle che contribuiranno alla caduta dei regimi comunisti nel 1989, e perché in questa occasione userà per la prima volta il termine “nuova evangelizzazione”, con cui qualificherà la dimensione missionaria del suo pontificato.

Per mesi e anni i diversi opinionisti si interrogheranno cercando di collocare ideologicamente il nuovo Papa: progressista o conservatore, di destra o di sinistra, secondo categorie rese più ambigue dai successivi avvenimenti storici, ma allora dominanti in un mondo diviso dalla prevalente contrapposizione fra il mondo comunista e quello occidentale. Sarebbe banale rispondere semplicemente che il Papa si sottraeva a quella rigida contrapposizione. Ma se questo era vero allora come lo rimane oggi per chi è custode di una fede che ha la propria carta d’identità nelle beatitudini, è anche vero che il Papa, e in particolare quel Papa che veniva da un Paese comunista, non può essere estraneo a una contrapposizione così importante, anche per la vita della Chiesa.

Come il Papa si sarebbe comportato di fronte alla sfida dei regimi comunisti? Avrebbe oppure no continuato la politica di distensione cominciata durante il pontificato del beato Giovanni XXIII (1958-1963) e confermata durante il successivo di Paolo VI (1963-1978), la ost-politik sulla quale avevano riserve tanti campioni della fede all’interno degli stessi paesi comunisti, come il primate d’Ungheria card. Jósef Mindszenty (1892-1975) e lo stesso primate polacco, maestro di Wojtyla, il card. Stefan Wyszy?ski (1924-1981), il Primate del Millennio.

Evidentemente Papa Woityla aveva idee ben precise in proposito. La sua strategia si può evincere da quanto fece in Polonia, a Cracovia, e più in generale da come si comportò l’episcopato polacco nel suo complesso nell’impostare il rapporto con il regime comunista.

La Chiesa polacca era una Chiesa di popolo, non una piccola minoranza senza una reale influenza sulla popolazione, come spesso accadeva nei paesi comunisti. Il Primate del Millennio la guidò portandola ad assumere una fisionomia ben precisa, senza cedimenti, fiera, ma che non mirava direttamente a un cambio di regime, neppure attraverso l’appoggio a gruppi laicali. La Chiesa polacca crebbe durante gli anni del regime, combatté diverse battaglie, non perse mai il rapporto con i giovani, con gli operai e con gli intellettuali della nazione.

Da Papa, il cardinal Wojtyla mantenne questa linea d’azione caratteristica: non rinnegò l’ost-politik, mantenne come segretario di Stato il cardinal Casaroli che era stato l’artefice di questa politica, ma mentre cercò di raggiungere gli obiettivi ai quali questa politica mirava, cioè la ricostituzione della Gerarchia ecclesiastica nei paesi comunisti che desse ai fedeli garanzie giuridiche maggiori di quelle che avevano avuto fino ad allora, non rinunciò al rapporto diretto con la popolazione, che sarà uno dei momenti forti del pontificato e che si manifesterà in tutta la sua forza dirompente proprio in occasione del suo primo viaggio apostolico in Polonia, nel 1979.

Come ha sottolineato anche Andrea Riccardi, la sua politica non si preoccupava tanto delle modalità quanto dei risultati e si riservava un intervento personale e diretto se questi risultati non fossero arrivati. Come quando era arcivescovo di Cracovia, anche da Papa non gli interessava tanto che cambiassero i regimi – non era direttamente compito suo – quanto che la Chiesa, e la nazione, potessero godere della libertà, e della libertà religiosa in particolare, tema del quale era particolarmente esperto, anche a livello dottrinale. Come si sa, otterrà anche il cambio dei regimi … il “sovrappiù”, oltre alla libertà religiosa.

Fin da subito, comunque, apparve come la caratteristica del pontificato non dovesse essere cercata nelle grandi posizioni o contrapposizioni politico-culturali, ma nel desiderio del Papa di comunicare al mondo, a tutti gli uomini, quanto la Chiesa aveva ricevuto e cioè anzitutto la conoscenza e l’amore di Gesù Cristo. Lo scriverà esplicitamente nella prima enciclica, Redemptor hominis: «È proprio qui, carissimi fratelli, figli e figlie, che s’impone una risposta fondamentale ed essenziale, e cioè: l’unico orientamento dello spirito, l’unico indirizzo dell’intelletto, della volontà e del cuore è per noi questo: verso Cristo, redentore dell’uomo; verso Cristo, redentore del mondo» (n.7).

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